Nel panorama chitarristico europeo esiste una tradizione strumentale che ha le sue radici nella cultura dei nomadi Manouches, una delle principali famiglie zingare del continente. Una tradizione in cui la musica più autenticamente gitana, già di per sé frutto della fusione di varie culture, assorbe gli elementi ritmico armonici del jazz americano e che è stata resa nota in tutto il mondo dallo smisurato talento di Django Reinhardt. Lo Swing Manouche nasce dall'incontro del Jazz americano degli Anni '30, dal Valzer Musette francese e dalla tradizione tzigana. Tutto questo impregnato da nomadismo zingaro e dalla contaminazione diretta delle musiche incontrate. Questa magica fusione è avvenuta come evoluzione personale e percorso naturale di alcuni musicisti Gitani e Manouches il cui caposcuola, da tutti riconosciuto, fu il leggendario Django Reinhardt, anch'egli Manouche. Questo grande musicista ha saputo coniugare la libertà di espressione con il virtuosismo tzigano del fraseggio, concentrando in lui la sostanza musicale e operando una sintesi innovatrice che riassume il passato, preparando il futuro. Oggi, a più di 50 anni dalla morte di Django Reinhardt, il Jazz Manouche (Swing Manouche o Gypsy Jazz) continua ad evolversi, con sempre più persone che l'ascoltano, lo suonano e lo amano.
Tradizione Manouche
I nomadi Manouches sono i discendenti del ceppo zingaro più antico. Giunti in Europa occidentale tra il XV e il XVI secolo, dopo un viaggio durato circa un millennio, hanno scelto come sede di permanenza la Francia, l'Olanda, la Germania e il Belgio. La loro origine indiana trova conferma nel nome "manus", appartenente al ceppo linguistico indo-europeo. E' entrato nel linguaggio corrente francese come manouches che dall'antico Hindi deriva dal termine "manusa": essere umano.
Un contributo significativo allo sviluppo dello stile musicale Manouche fu apportato negli Anni Trenta dal chitarrista e compositore Django Reinhardt, anch'egli Manouche. Nel 1934, Django creò con il violinista Stéphane Grappelli il Quintetto a corde dell'Hot Club de France. Nasce un nuovo ed interessante jazz Europeo. (Nella Foto Il Quintetto dell'Hot Club di Francia nel 1937: Stéphane Grappelli, Josehp Reinhardt, Django Reinhardt, Luis Vola e Pierre Ferret).
Nei successivi vent'anni, Django fu in grado di mostrare i diversi aspetti del suo smisurato talento. Un virtuoso dello strumento capace di reinventare radicalmente l'approccio della chitarra nel jazz, un compositore di capolavori sbalorditivi alla ricerca continua d'ispirazione nelle nuove tendenze, passando dallo swing al bop, dalla chitarra acustica alla chitarra elettrica. Ma senza mai perdere di vista le sue radici culturali e le sue particolari sonorità.
In breve, fu un raro esempio di intelligenza musicale incontaminata dalle mode e dai tempi. Django morì per un'emorragia celebrale il 16 Maggio del 1953 all'età di soli 43 anni.Passiamo alla Germania del 1967 per assistere alla nascita di quello che oggi viene chiamato Gypsy Jazz o Swing Manouche attorno all'emblematica figura del violinista Schnuckenak Reinhardt, con il quale molti musicisti impararono il loro mestiere prima di formare i propri ensembles. I musicisti Sinti scoprirono Django attraverso i dischi e attraverso la pratica musicale, propria delle loro famiglie.
Amando suonare tra loro e per loro stessi una musica nella quale si riconoscono, ancora oggi si tramandano di padre in figlio il loro immenso patrimonio culturale. Nelle comunità Manouche, la tradizione si trasmette oralmente in occasioni di festa ed incontri familiari dove la musica occupa sempre un posto preponderante. Senza dubbio l'invenzione di questo nuovo folklore risale alla fine degli Anni Sessanta. Il fondamentale riferimento per il suo sviluppo fu il primo quintetto a corde di Django, quello formatosi prima della guerra. I Manouche ne impararono il repertorio e acquisirono padronanza con gli strumenti: due chitarre da accompagnamento e un contrabbasso per assicurare una imperturbabile sezione ritmica (da loro chiamata "la pompe" manouche), una chitarra solista, un virtuoso violino e talvolta una fisarmonica. I chitarristi, fedeli ai propri maestri, danno priorità alla ricerca del virtuosismo e dello spettacolare.Il punto di partenza dei loro studi è rappresentato da un certo numero di composizioni di Django (quali Nuages, Minor Swing, Manoir de me Rèves…), dagli standards suonati da Django prima del 1940 e da alcuni valzer musette (influenza dei fisarmonicisti swing come Gus Viseur, Tony Muréna o Jo Privat). Questo fenomeno sia di natura estetica sia di natura sociologica è stato denominato, forse impropriamente, Gypsy Jazz: i Manouche non aderirono affatto al Jazz, ma allo stile di Django con il desiderio di affermare la loro appartenenza etnica.
Il Gypsy Jazz o Swing Manouche possono essere meglio descritti come movimento folcloristico, folklore vivente aperto a influenze esterne nel quale è possibile ogni sorta di scambio, abbracciando un ampio spettro di stili pur rimanendo nel proprio contesto musicale. Da una buona decina d'anni l'influenza di Django sembra non diminuire affatto: sono stati organizzati nuovi festival a lui dedicati in Francia (Django Memorial Festival – Samois Sur Seine , Festival di Angers e Strasburgo), Belgio, Germania (Django Reinhardt Festival di Augsburg), Svezia (Gypsy Jazz Festival di Thorshalla), Inghilterra (UK Gypsy Fest), Norvegia (Django Festival in Oslo), Canada, Stati Uniti (Django Festival di New York al Birdland, North West Django Fest a Washington, San Francisco, Chicago), Islanda (Django Jazz Festival di Akureyri), Giappone e Italia (Festival Jazz Manouche Django Reinhardt di Torino).
Diversi gruppi composti da zigani o da gadjès (termine zigano per definire la popolazione non zigana) stanno conferendo un nuovo look alla musica dell'Hot Club, suonandola sui palchi, registrando in studio, viaggiando e facendo rivivere questa tradizione e riscontrando un successo popolare sempre crescente.
Biografia di Django Reinhardt
23-1-1910 Nasce a Liberchies (Belgio) Jean-Baptiste (Django) Reinhardt nel carrozzone della famiglia che formava un'orchestrina ambulante.
1912 Nasce il fratello Joseph, soprannominato Nin-Nin.
1916 c.a Trasferimento della famiglia nella periferia di Parigi.
1928 Prime registrazioni di musica da ballo con fisarmonicisti.
2-11-1928 Incendio della roulotte e perdita per ustione dell'utilizzo due dita mano sinistra.
1930 Dopo la convalescenza Django riprende a suonare inventando una nuova tecnica a causa del suo handicap.
1931 Sente i primi dischi di jazz rimanendo esterefatto e commosso.
1931-1934 Diventa sempre più richiesto come accompagnatore in orchestre da ballo.
1934 Con il violinista Grappelli, Vola, Chaput e Joseph nasce a Parigi il Quintette de l'Hot Club de France.
1935-1940 Il successo del QHCF ha grande successo e molti musicisti americani di passaggio in Francia desiderano conoscere l'amazing gipsy.
1940 La guerra separa i due leader del Quintetto, uno a Londra (Grappelli) e l'altro a Parigi (Django).
1940-1944 Durante la guerra e l'occupazione in Francia, Django è la star più in voga del panorama jazzistico. Amato e corteggiato da occupati e occupanti.
1944-1945 Gli alleati mettono fine alla guerra e Django ha occasione di suonare con molte orchestre americane venute al seguito delle truppe di liberazione.
1946 Finalmente il sogno di Django si avvera con la tournée negli USA assieme a Duke Ellington. Episodio da dimenticare in quanto lo spirito di Django non poteva andare d'accordo con le regole del businnes-show americano.
1947-1949 Il Be-bop è arrivato e Django esplora la nuova musica con un nuovo Quintetto, ma si dedica anche molto alla pittura, al bigliardo e alla pesca nel tranquillo paesino di Samois-sur-Seine dove affitta una casetta con la moglie e il figlio Babik.
1949 Tournée in Italia (Roma, Napoli e Milano).
1950-1953 Suona tutte le sere al Club Saint-Germain di Parigi.
gennaio 1953 Firma con Norman Granz per una nuova tournée negli Usa, Giappone ed Europa.
16 maggio 1953 Django muore per ictus celebrale.
La chitarra dalla voce umana (di Sandro Cappelletto - La Stampa)
Prima o poi, dicevano gli invidiosi, gli converrà imparare a scrivere, almeno per firmare gli autografi e contratti. Tempo per studiare, ne aveva avuto poco: era uno di quei geni vagabondi che non chiedono maestri e fuggono le scuole. Ascoltava e ricordava tutto, poi lo risuonava, inventando. Jean?Baptiste, detto Django, Reinhardt, numero uno della chitarra jazz. Anni 30 e 40, presente come l'ossessione di un ideale inarrivabile nella mente di Ray Emmet, il chitarrista mai esistito protagonista di Accordi e Disaccordi (Sweet and Lowdown), il film di Woody Allen appena uscito in Italia. A differenza di Emmet, Django è vissuto davvero, ma la sua vita ha fatto di tutto per trasformarsi in leggenda e la sua chitarra, la prima che si ricordi nella storia del jazz, la nutriva. Django era un "Manouche", uno zingaro zigano dell'Europa dell'est. Nato nel 1910 in un campo sosta della sua larga famiglia nei prati vicino a Charleroi, in Belgio; a dieci anni suonava violino, banjo, chitarra e si guadagnava da vivere come ancora fanno molti Rom nelle strade delle nostre città […].
Popolo Creativo
Francia, Corsica, Italia, Nord Africa: la famiglia di Django gira al largo della Grande Guerra; quando finisce, scelgono la periferia di Parigi per fermarsi un po'. Il ragazzino suona nei bistrot, qualche orchestrina gli offre i primi contratti, ha diciotto anni quando arriva l'occasione: andare in Inghilterra con il band leader Jack Hylton. Sarà che quella notte era stanco, o che quando suoni per ore, anche se non canti, ti viene sete e bevi; sarà stata una stufa difettosa, un mozzicone di Gitane, il freddo di un novembre parigino del 1938, ma la roulotte dove Django torna a dormire, quella notte si incenerisce. Lui si brucia orrendamente, ma dopo diciotto mesi di ospedale, il viso strafottente di dolcezza, il lungo sopracciglio a virgola, il cappello brillantinato all'indietro, la sigaretta pendula tenuta all'estremità delle labbra, può tornare ad esibirli. Peggio se la cava la mano sinistra; tre dita perdono la sensibilità, ma lui fa di necessità virtù e con l'indice e il medio superstiti riesce, velocissimo, a scendere e salire scale. Con i tre altri tizzoni tiene gli accordi. Edith Piaf non ci voleva credere e quando le capiterà di conoscerlo, prende tra le sue quella mano e la scruta cercando di capire come Django potesse riuscirci. Suona all'Hotel Claridge di Parigi, al Coq Hardi di Tolone, al Lido e al Palm Beach di Cannes; l'Europa si sta innamorando del jazz.
In Italia, la passione dello swing di Vittorio Musssolini riesce ad aggirare l'embargo decretato dal regime paterno verso quella musica negra, scomposta e nemica: è il 1933 quando a Torino - scrive Gian Carlo Roncaglia - si apre il primo Hot Club nostrano. Perduto Hylton, Django ha trovato altri Pigmalioni: il pittore Savitry, che gli fa ascoltare Armstrong e Ellington; poi, nelle caves di Saint Germain des Prés, Mistinguette, Jean Sablon, Jean Cocteau. Nascono le prime chitarre elettriche e negli Stati Uniti Charlie Christian, sei anni soltanto meno di Django, subito le preferisce. Lui no, insiste sullo strumento acustico; però piazza un magnete sulla cassa armonica, all'altezza della buca, e lo collega ad un amplificatore (N.d.R.: quante volte si staccherà dalla chitarra quel maledetto Stimer!).
L'ombra del Tango
Nel 1940, crea Nuages, il capolavoro, l'ombra inafferrabile di un tango attraversata da arpeggi che sempre divagano, da una triste, ma quanto sensuale melodia del violino. Arriva un'altra guerra, Grappelli e Django sono in tournée a Londra dove il primo rimane, mentre il secondo ritorna precipitosamente in Francia incurante delle persecuzioni naziste contro gli zingari, poi riprende la vita da roulotte. Nel 1946 inizia una tournée americana, voluta da Duke Ellington. Insaziabile di curiosità, interpreta The Man I Love di Gershwin, Night and Day di Porter, September Song di Weill, Brasil di Barroso. Vita di fatica, totalmente senza risparmi, anche quando i segnali che manda il corpo cominciano a essere precisi. Muore nel 1953, per una emorragia cerebrale. Ha quarantatre anni. In Swing 48 la sua musica si era aperta ad un dinamismo bruciante, tirato allo spasimo, ma capace di specchiarsi in abissali malinconie, come Mélodie au Crépuscule. Questa fantasiosa tristezza rapsodica è il carattere della sua musica che più ha sedotto Woody Allen e prima di lui Jean Cocteau, quando battezzò il Manouche, che aveva suonato all'Ecole Normale de Musique di Parigi, "la chitarra dalla voce umana". (di Sandro Cappelletto)
Un fuoco di assoli
Si permette così delle leggerezze di tocco che esaltano l'effetto "bending": la corda vibra a lungo senza generare i riverberi pesantissimi inevitabili nelle elettriche e mantenendo "quel suono più da strada, meno per bene, dove subito riconosci il suo istinto tzigano", racconta Stefano Cardi, uno dei nostri chitarristi più versatili, più personali. Django inventa assoli che sono un fuoco di colori, di guizzi, di tremoli, di strappate, mentre la sua chitarra continua a suonare più secca, simile a un banjo. Come i jazzisti americani, figli di derive musicali africane, anche lui sfrutta le risorse della microtonalità e con i due ditoni rimasti sani (N.d.R.: i due grandi solisti) se ne va a passeggio lungo fraseggi stupendi, imprevedibili, rapsodici: si fosse incontrato con Domenico Scarlatti che invece della chitarra "toccava" un clavicembalo,lo zigano di Parigi e il napoletano emigrato nel Settecento in terra gitana avrebbero messo su un duo. Globalizzato, contaminato, cross?over, multi?etnico, con tutte le carte in regola rispetto le banalità di marketing oggi prevalenti: ma geniale. Django invece incontra Stéphane Grappelli, che è il suo opposto. Figlio di un impiegato, a studiato, col babbo presuntuosetto, pianoforte e violino classico, ascoltando Ravel e Debussy. Poi, conosce il violinista Eddie South in tournée europea con la sua band e subito dopo incontra Django: con due altre chitarre e un contrabbasso formano il Quintetto dell'Hot Club di Francia, che diventa la prima formazione jazz europea in grado di competere con i padri neri. Arrivano i dischi, la fama di Django cresce al punto che Günter Schuller, nella Storia del Jazz (pubblicata in Italia dalla EDT), definisce le sue incisioni parigine del 1939 con un gruppo statunitense "tra le gemme più impagabili di tutto il jazz da camera".
Fotografie di Django Reinhardt
Swing! Swing?
Questo termine dalla grafia così dinamica, per lungo tempo non fu associato che al jazz made in USA e alla sua pulsazione ritmica così pregnante. Ma da un po' di tempo ormai, possiamo affermare che lo Swing Manouche - nato dall'esempio prestigioso di Django Reinhardt - non solo fa parte integrante della cultura tzigana, ma anche del nostro universo sonoro di gadjo, di non-tzigani. Come definire lo swing manouche? E' una musica aerea, dello spazio. La mano di Tchavolo che corre sul manico della chitarra, si direbbe un uccello che prende il volo! Questa musica fatta dai Manouche, che ci aspetteremmo piena di dolore e di collera, è piena di gioia comunicativa. Non c'è nostalgia, non c'è nessuna gravità. E' una musica che non è graziosa, ma bella, gioiosa, libera ed arrogante quando osa andare da una nota ad un'altra rompendo il ritmo e sfidando le armonie. E' una musica che viene dal cuore e dall'orecchio, azzardando note inimmaginabili per un musicista che ha imparato la musica al Conservatorio. Beneficiando oggi di una vasta corrente di interesse, questo concetto di swing manouche non è più da considerare come un sintomo collaterale, ma al contrario è riconosciuto come scuola di jazz ben specifica. E' possibile misurarne ora tutto lo charme e la profondità […] assistendo, tra le popolazioni di origine manouche, allo svilupparsi di molti talenti musicali, sia alla chitarra, sia al violino, sia alla fisarmonica. Magari diversi tra di loro come Tchavolo Schmitt, Mandino Reinhardt, Bireli Lagrene, Marcel Loeffler, Christian Escoudé o il compianto Babik Reinhardt, ma comunque uniti da una stessa espressività, quell'ardente lirismo e quell'amore per l'improvvisazione, presente già nelle loro tradizioni folkloristiche. Questi musicisti manouche, che sognano evidentemente tutti Django, testimoniano una grande varietà di stili e di approccio strumentale. Infine, lontano dall'essere un arte etnica senza influenza verso l'esterno, come qualcuno ha azzardato, questo jazz manouche sempre di più affascina il mondo non tzigano.
Ma, oltre all'incanto per una geniale tecnica strumentistica, sempre di più cresce l'interesse per la scoperta di nuovi universi inesplorati, dove lirismo d'espressione, arricchimento armonico e rigore ritmico fanno di Django Reinhardt una delle figure più grandi del jazz e l'unico fondatore dello swing manouche. (estratto da un testo di Alain Antonietto sulla rivista Etudes Tziganes)
Le Parfum Tzigane
Nel mondo del jazz manouche, si sente a volte dire di questo o quel chitarrista, a mo' di elogio, che suona "meglio di Django". Questo apprezzamento, […], riassume nel migliore dei modi la sostanza di quest'arte: l'omaggio migliore che l'allievo possa fare al maestro, è quello di superarlo. Non per sminuirne la sua eredità, ma al contrario per farlo vivere ed evolvere. […] E tra gli eredi, al di là delle differenze stilistiche, troviamo in tutti i musicisti una lingua materna comune, quel "parfum tzigane" così difficile da definire, ma così facile da riconoscere. (G. Tordjiman)
Le chitarre tipiche del Jazz Manouche, fedelissime copie delle famose Selmer del liutaio Mairo Maccaferri, utilizzate da Django Reinhardt negli anni Trenta e Quaranta. Clicca sul'immagine per ingrandirla.